
LA GUERRA RENDE VOLGARI
Arbeit schändet (“Il lavoro rende volgari”) si legge nell’acquerello di George Scholz del 1921, oggi conservato allo Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe. Scholz, con la tipica violenza dell’espressionismo tedesco, ritrae il passare di due (oprai? giornalai?) emaciati dalla povertà, dal quotidiano andare verso la rassgnazione, l’eterna notte più buia di ogni notte mentre, in secondo piano, pantagruelico, sostenuto dalla scenografia tutta fabbriche e ciiminiere, troneggia sulla propria carrozza un potente (che sia il capo?), più certamebnte l’archetipo di ogni abuso, tutto sigaro, monocoli e tipiche fattezze suine. Basterebbe cambiare soggetto e scrivere <<Guerra>> al posto di <<Lavoro>> ed eccoci le tele di cassarino: la Guerra rende volgari, con tutta la sua appendice di disperazione, rassegnazione, assuefazione nei volti – non più volti della gente comune, costretta appunto alla volgarità, alla convivenza con le macerie, da più invisibili e piotenti maiali, ben lontani da quel Porco Rosso di Hayao Myazaki che, della guerra del tempo che fu, ci lascia quantomeno rimpiangere l’eroico svolgersi di quei primi combattimenti celesti su monoplani dell’ingegner Caproni.
Erano belle si, le guerre di una volta. Tutte epos, cavalli, sciabole e archibugi. Pittoresche come un carnveale. Avventurose e maschie doppio wisky, degne di rapsodi e rabdomanti di anime perse, da sussurrare attorno al focolare all’orecchio di castellane e fanciulle nelle notti d’inverno. D’altra parte, come è noto il linguaggio della guerra è quello dell’amore, Marte riposa su Venere mentre questa appare al giovane prescelto, in battaglia, e lo accoglie morente per portarselo lassù con te, nei suoi misteriosi spazi interstellari, in quell’Olimpo dei martiri di ogni patria. Lo sapevano trobadori e cortigiani, e ancor più le regine che approfittavano delle disperate assenze per cornificare il sovrano a ogni squillo di tromba, a ogni attacco nemico. Che non c’è eroe senza guerra e non c’è guerra senza amore (e senza corna).
Si partiva felici, fischiettando vogliosi di sperimentare la gioventù, temeraria ed esplosiva, e ogni generazione veniva accontentata con la propria guerra. Ci fu un tempo in cui la guerra venne definita <<arte totale>>, <<Futurismo realizzato>>, con quell’inedito, tecnologico, tripudio di colori suoni odori. Era il 1914 e l’Italia si divideva in neutralisti da un lato (vecchi babbioni, passatisti, critici letterari, archeologi, docenti universitari) e interventisti dall’altro (giovani, scrittori, intellettuali, artisti e poeti).
Bisognava provare aeroplani, sottomarini, carri armati, autoblindo, bombe a mano. In fin dei conti rumorosi giocattoli per panettieri, postini e impiegati, di colpo, chiamati alla scuola di coraggio, a diventar naviganti ed eroi, col solo biglietto d’andata per la “Guerra Festa”, come la definirono artisti e libertari arringati dal vate “D’Annunzio” e dalla Caffeina d’Europa (Marinetti).
Ma il vecchio andante ha sempre ragione: il gioco è bello quando dura poco.E passar dal piacere al dispiacere, dalla festa all’inferno, è un attimo. Non fu solo Hans Arp a soffiarsi il naso nella bandiera nazionale. Lo stesso Marinetti intelechiamente guerra fondaio, all’indomani della prima guerra mondiale, dove perde anche gli amici Boccioni e Sant’Elia, fonda il Secondo Futurismo, con quel Manifesto del Tattilismo del ’21 che inizia con il celebre <<Punto e accapo>>, tutto amore, amicizia e carezze corpo-oggettuali: l’arte che si fa tatto e contatto.
E’ volgare la guerra chè sfrutta le debolezze del corpo umano. Brancati è definitivo nei Piaceri. Parole all’orecchio, uscite quando si re-impugnarono le armi, durante la seconda guerra mondiale, meditando sulla nostra misera condizione di corpi: <<In mezzo a una natura di ferro, pietra, bronzo, legno, dura, nocchiuta, serrata, pesante, noi siamo veramente come vasi di terracotta che viaggino fra vasi di ferro. Nessuna delle cose che stanno sul capo e a lato, cadendo su di noi, mancherebbe di ucciderci. Il corpo umano non può sfidare nessun oggetto in durezza e resistenza: anche i modesti arnesi, che ci stanno sul tavolo di lavoro, se manovrati con forza son atti a rompere le nostre ossa. In tal modo, la vita prende l’aspetto di una fiammella saltellante, riparata da una piccola mano, in mezzo all’infuriare dei venti>>.
Colpisce che l’uomo non protegga la saltellante fiammella, che non abbia pietà di se stesso e delle cose che lo circondino, siano essi animali, piante, abitazioni, persino oggetti minuscoli, verso i quali il surrealismo dei fratelli De Chirico (Alberto, dello “Savinio”, e il più noto Giorgio) proponeva, nel massimo momento di Buddhita, di allargare la sfera dell’amore. La così detta <<Crisi di Allargamento dell’Universo>>, nella quale la poltrona che ti accoglie è un utero materno: eccola, la poltrona-mamma.
Nelle nove tele di Cassarino, pardon 8+1, (la numerologia conta, come insegna Salvatore Schembari), le persone dialogano con le cose. La distruzione di una casa e quella di un animo altrettanto sventrato e che pur continua nel suo andare, nel suo perenne fluire: la signora di spalle con il carrellino della spesa; l’uomo che fuma la sua sigaretta, il giovane che cammina fra le macerie dove si riconoscono libri, i bambini sull’altalena simbolicamente intatta… E sui simboli è sempre bene sostare.
Eccolo l’andare… che orbita attorno all’unica tela dotata di titolo, quella nella quale una bimba dal cappotto rosso, sola, in uno spiazzale, grigio e desolato, tiene in mano un oggetto.
L’oggetto in questione è una ginestra che da il titolo all’opera. Il visitatore ha senz’altro tutti gli strumenti per riportarla a quella ginestra (o fiore del deserto) di leopardiana memoria. Ma forse ignora un altro dettaglio. Si racconta che in una scuola di zen, molti anni fa, nell’antichissimo Oriente, un maestro propose ai propri allievi un Kōan, nella fattispecie, un intricata domanda sull’essenza della realtà e sull’insegnamento del Buddha. I ragazzi si scervellarono, dando ognuno una risposta complessa, parziale, mai risolutiva, ugualmente errata. Fin quando il più piccolo degli allievi, che viveva bistrattato, rinchiuso nelle cucine, all’udire la domanda raccolse un fiore e lo portà al maestro il quale, per l’esatta risposta non-verbale e che pur contiene ogni parola, lo riconobbe illuminato.
Andrea G.G. Parasiliti